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Le camicie sporche di sangue

Andrea Sarubbi, ex deputato del PD, che lavorò molto sui temi dell’immigrazione, scrive una riflessione che parte da un commento sulle parole di Salvini, segretario della Lega, che ha accusato il governo Renzi per l’ennesima tragedia avvenuta nei nostri mari.
Come spiega bene Sarubbi, i migranti hanno ripreso ad arrivare perché la Libia non li ferma più.

Tra quel governo Berlusconi, in cui la Lega giocava un ruolo fondamentale, e questo governo Renzi, in cui il Carroccio è invece all’opposizione, sull’altra sponda del Mediterraneo sono successe parecchie cose. La più rilevante è la rivoluzione in Libia, che ha tolto di mezzo Gheddafi: venuto meno il suo sistema di lager per i migranti senza rispetto delle convenzioni internazionali, l’Italia ha perso la sponda sanguinolenta su cui aveva costruito l’equilibrio per parecchi anni. Ma quel cambiamento che poteva e doveva essere un bene, soprattutto per il rispetto dei diritti umani, ha invece prodotto caos: e così – come ha ammesso più volte la ministra Pinotti, riferendo in Parlamento sull’operazione Mare Nostrum – l’Italia si è ritrovata senza un interlocutore e ha dovuto fare da sola. Riuscendo solo in parte a fermare gli scafisti e a salvare le vite dei migranti, e comunque fallendo sul fronte della deterrenza.

Rimpiangere il trattato con la Libia, voluto da Forza Italia e dalla Lega, significa però non avere ben chiaro quale fosse il trattamento riservato da Gheddafi a chi voleva partire per le nostre coste.
Forse però in Europa qualcosa sta cambiando.

In realtà, di interlocutori ce ne mancano almeno un paio: uno è appunto la Libia – ma c’è da chiedersi, anziché rimpiangere Gheddafi e il nefasto Trattato di amicizia, se il metodo “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” fosse degno di un Paese democratico come il nostro – e un altro è l’Europa, che solo negli ultimi mesi sta prendendo coscienza del problema. Il merito non è di Renzi, né di Letta, né di Monti, né di Berlusconi, ma da un lato di tutti coloro che – parlamentari europei compresi – si sono battuti per la modifica (parziale, purtroppo) del regolamento di Dublino, dall’altro dell’avvicinarsi del semestre europeo: è proprio oggi, con l’Italia alla guida dell’Unione, che comincia davvero la nostra partita, e abbiamo 6 mesi di tempo per chiuderla bene.

Il problema politico è sempre lo stesso. Affrontare il problema dell’immigrazione, in un momento di crisi economica, può soltanto creare problemi di consenso per i governi. Anche per questo l’impegno della Commissione Europea può essere una stampella indispensabile.

Non è corretto dire che abbiamo portato da soli, finora, tutto il peso delle migrazioni: ne sanno qualcosa i partner europei che durante gli anni Novanta hanno aperto le porte, più di noi, ai richiedenti asilo dei Balcani. È innegabile, però, che lo sforzo operativo nel Mediterraneo sia oggi quasi tutto sulle nostre spalle, complice l’inaffidabilità dell’agenzia Frontex (che ci dà gli spiccioli, anche a livello economico) e la resistenza degli altri governi nel mettere in agenda un tema così poco popolare sul fronte del consenso. Il fatto che il neopresidente Juncker stia pensando a un commissario apposito è certamente buon segno, e lo sarebbe ancora di più se questo commissario per le migrazioni fosse italiano.

Affrontare insieme il problema dell’immigrazione per salvaguardare i diritti dei migranti e quelli dei cittadini, specialmente quelli di frontiera.

Luca

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politica

Andrea Sarubbi e la vita oltre il parlamento

Andrea Sarubbi, ottimo deputato del PD, non ha partecipato alle primarie dei parlamentari e pare, ma chi lo sa, che non sarà inserito nel listino scelto direttamente dalla segreteria e che verrà presentato domani.
Il famoso listino con Fioroni, Marini e altri fantastici personaggi dei tempi che furono.

Sarubbi alcuni giorni fa aveva scritto un post nel quale spiegava come è andata e ieri ne ha scritto un altro nel quale evidenzia come sia difficile cercare la riconferma in parlamento per chi viene dalla tanto celebrata società civile.

[…]quando la loro prima legislatura sarà finita, i candidati civici dovranno tornare al lavoro precedente, se lo hanno ancora, oppure – per essere rieletti – dovranno cominciare a fare i conti con le tessere e i voti, come chi viene da un radicamento territoriale nel partito e magari ha dedicato alla politica buona parte della propria vita? La società civile serve, insomma, ma solo finché è vergine? E cosa fa al secondo giro?

E’ evidente che il caso singolo non può spiegare la situazione generale, come è altrettanto vero che Sarubbi meritava la riconferma in parlamento, molto e prima di altri.

Penso che uno come Andrea Sarubbi possa dare un contributo prezioso al partito e al paese. Deve trovare la sua collocazione, che non deve però essere per forza il parlamento.
Se critichiamo chi non sa far altro che fare il parlamentare, dobbiamo essere anche consequenziali e non buttarci troppo giù quando scopriamo che non c’è posto per noi nel prossimo giro di giostra.

Non è questione di non essere tempo per noi.
E’ ancora tempo per noi, magari in un altra collocazione.

Se poi il PD dovesse rinunciare all’apporto di Sarubbi anche al di fuori del parlamento, ecco, allora quella si sarebbe una scelta imperdonabile.
Ma sono convinto che l’attuale ed il prossimo segretario del PD non faranno questo errore.

Su tutto questo, condivido l’auspicio di Pippo Civati:

[…] cerchiamo di adottare gli stessi criteri per tutti, premiamo chi è stato votato alle primarie e aggiungiamo alla soluzione che ne ricaviamo solo figure che abbiano particolari competenze e grande prestigio sociale, anche pensando che noi poi dovremmo governare il Paese. Per dire.

E se la competenza è essere «-ani» di qualcuno, forse non ci siamo capiti.

Luca

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politica religione

La ferita inflitta alla pace. Ma anche no

Questo è un post lungo e noioso, ma me l’avete chiesto voi e ora ve lo sorbite.

Ho un pubblico attento che mi chiede spiegazioni sul perché avessi qualche giorno fa ritenuto utile e condivisibile il post scritto da Andrea Sarubbi, deputato del PD ed ex giornalista RAI, nel quale commentava le parole del Papa che definivano i matrimoni gay come una ferita inflitta alla pace.

Mi lusingate, non pensavo che la mia opinione fosse così degna di attenzione, quindi vorrei un attimo precisare la questione.

Mi si dice che, come al solito, le parole del Papa sono state equivocate. Come dire, pure a noi queste parole sembrano sbagliate, ma la colpa è dei giornalisti che riportano sempre porzioni di discorso, estrapolandole da un riflessione più complessa.
Ci sarebbe da dire che se ogni santa volta equivocano quello che dici, forse varrebbe la pena rivedere un attimo la strategia di comunicazione, perché se io ti chiedo di passarmi il sale e te ogni volta mi passi l’olio, allora forse sono io che non so parlare.

Le parole, prese dal messaggio per il 1 Gennaio 2013, giornata mondiale della pace, sono queste.

Anche la struttura naturale del matrimonio va riconosciuta e promossa, quale unione fra un uomo e una donna, rispetto ai tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale.
Questi principi non sono verità di fede, né sono solo una derivazione del diritto alla libertà religiosa. Essi sono inscritti nella natura umana stessa, riconoscibili con la ragione, e quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa. Tale azione è tanto più necessaria quanto più questi principi vengono negati o mal compresi, perché ciò costituisce un’offesa contro la verità della persona umana, una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace.

Queste parole seguono una dissertazione sulle violazioni contro la vita, quindi la ferita inflitta alla pace si riferisce probabilmente anche (e soprattutto) a queste:

Ogni lesione alla vita, specie nella sua origine, provoca inevitabilmente danni irreparabili allo sviluppo, alla pace, all’ambiente. Nemmeno è giusto codificare in maniera subdola falsi diritti o arbitrii, che, basati su una visione riduttiva e relativistica dell’essere umano e sull’abile utilizzo di espressioni ambigue, volte a favorire un preteso diritto all’aborto e all’eutanasia, minacciano il diritto fondamentale alla vita.

Detto questo, la semplificazione fatta dai giornali “I matrimoni gay sono una ferita inflitta alla giustizia e alla pace” è una semplificazione, appunto, ma è sostanzialmente corretta.
E’ quello che ha detto il Papa.
Se non vuoi che i giornali possano equivocare, separi bene le cose, prima parli degli attacchi contro la vita umana e li associ alla pace, e poi parli dei matrimoni gay. I giornalisti hanno fatto il loro lavoro.

Cosa aveva scritto Andrea Sarubbi di tanto bello e giusto? Sostanzialmente due cose.
La prima, che la politica dovrebbe farla finita di considerare le parole del Papa alla stregua di sentenze delle Corte Costituzionale.

[…]la colpa è tutta della politica, e in particolare di noi cristiani impegnati nel campo: se smettessimo di utilizzare le parole del Pontefice come se fossero sentenze della Corte costituzionale, magari faremmo un servizio a noi stessi e alla nazione. Ognuno di noi, sul tema, potrà avere le proprie convinzioni, ed è giusto confrontarci apertamente; per la credibilità che dobbiamo a noi stessi e alle istituzioni in cui operiamo, però, dobbiamo chiarire agli elettori che l’agenda politica dell’Italia si scrive solo in Parlamento. E vale pure per l’immigrazione, sia chiaro: il giorno in cui la destra si dirà favorevole alla cittadinanza ai figli degli immigrati soltanto perché lo ha sentito da Benedetto XVI nel post-Angelus, anziché confrontarsi con noi nel merito della questione, potremo portare a casa un risultato ma non sarà comunque una vittoria della buona politica. Ma i giornalisti, che non sono poi così fessi, hanno capito tutto in anticipo: e quindi la notizia di oggi – parliamoci chiaro – non sono le parole del Papa, ma la loro possibile ripercussione sull’atteggiamento delle forze politiche in campagna elettorale.

La seconda, che il Papa ha ucciso un moscerino con un bazooka.

C’è poi il secondo aspetto di cui parlavo, quello della metafora utilizzata da Benedetto XVI: già quando il Papa dice – e lo fa spesso – che il riconoscimento giuridico di unioni dello stesso sesso è “un attentato alla famiglia tradizionale” mi riesce complicato capire il nesso tra i due argomenti; quando arriva addirittura a scomodare “la pace”, poi, mi arrendo del tutto. E mi ritornano in mente la Gaudium et spes, che negli anni del Concilio Vaticano II cambiò le carte in tavola rispetto all’insegnamento tradizionale sulla teoria della guerra giusta, e – forse con un po’ di demagogia, lo ammetto – anche i 40 mila morti in Siria, dove pure l’omosessualità è espressamente vietata dal Codice penale, ma la pace non se la passa benissimo.

Che poi il messaggio del Papa sia stato divulgato poche ore prima della strage di Newtown è una coincidenza, tragica ed ironica, che ha fatto pensare un po’ a tutti: “Scusi, Santo Padre, stavamo parlando di ferite infiltte alla pace?”

Ma sulla casualità, le strategie di comunicazione non possono fare quasi nulla.
E’ solo un tragico ed amarissimo scherzo del destino, su cui i gay più ironici avranno sorriso, mentre altri avranno versato le nostre stesse lacrime, incattivite dall’essere stati considerati una minaccia contro la pace.

Ecco, spiegato meglio, il mio pensiero sul discorso di Benedetto XVI.
Nessun equivoco, il Papa quello ha detto.

Se poi, come mi si fa notare, il mio essere sempre in dissenso mi dovrebbe far riflettere sulla mia fede, questo è un altro discorso, vorrei rassicurare tutti.
Mi tocca rifletterci fin troppo spesso sulla mia fede.
Non è l’ennesimo discorso avventato del Papa a peggiorare la situazione.
Ci sono tristemente abituato.

Grazie comunque per il vostro interesse.

Luca

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diritti umani

Gli immigrati reimpatriati con lo scotch sulla bocca

immigrato scotch
L’altro giorno su Facebook Francesco Sperandeo ha pubblicato questa foto con questa didascalia.

Guardate cosa è accaduto oggi sul volo Roma-Tunisi delle 9,20 ALITALIA. Due cittadini tunisini respinti dall’Italia e trattati in modo disumano. Nastro marrone da pacchi attorno al viso per tappare la bocca ai due e fascette in plastica per bloccare i polsi.

Su Twitter è partito il passaparola e dopo pochi minuti l’ottimo Andrea Sarubbi, deputato del PD, ha presentato una interrogazione parlamentare.


Oggi la Cancellieri, Ministro dell’Interno, ha risposto all’interrogazione alla Camera, confermando l’episodio.
I due immigrati avevano reagito in maniera violenta al reimpatrio e qualcuno ha pensato bene di imbavagliarli con lo scotch da pacchi e di legargli i polsi con le fascette di plastica.

L’episodio è ovviamente gravissimo, contrario a qualsiasi codice, e ci aspettiamo che il Ministro Cancellieri vada in fondo a questa vicenda, individuando le responsabilità.

Luca

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diritti umani politica

Sarebbe bello che, un giorno, Maroni passasse di qui

Andrea Sarubbi, dopo vari tentativi, è riuscito a visitare insieme ad altri parlamentari il CIE di Roma, dove vengono “accolti” gli immigrati clandestini per un tempo massimo di 18 mesi.
C’è chi dice che i CIE siano come delle prigioni.
Non è vero.
Sono molto peggio.

Uno può trovare tutti i sinonimi che vuole, ma io un posto del genere lo chiamo carcere. Un posto, voglio dire, con grate alte una decina di metri, e 27 telecamere che vigilano 24 ore al giorno, e soldati dell’esercito a controllare i monitor, e poliziotti a darsi il cambio con carabinieri e Guardia di Finanza. Anzi, il carcere è un po’ meglio, perché almeno a Rebibbia le cooperative sociali ti fanno lavorare, i volontari ti portano libri, il cappellano ti sta ad ascoltare, e se ti va bene trovi pure un bigliardino per fare una partita ogni tanto. Qui, al Cie di Ponte Galeria, non si può: le stecche del calcio balilla sono di ferro e dunque potenziali armi, i libri sono materiale infiammabile e dunque potenziali torce. E poco conta che le camere non abbiano sbarre alle finestre: le sbarre sono dieci metri più in là, alla fine del cortiletto che divide un complesso dall’altro.

I CIE sono l’ennesimo tributo pagato alla incapacità di governare e di legiferare della nostra classe politica.

C’è gente, fra questi 318, che ha già scontato tre anni di carcere in Italia e che ora attende di essere identificata: che cosa ha fatto, allora, il ministero della Giustizia nei tre anni precedenti? C’è la signora in pigiama che faceva la badante, e che ora – dopo la scadenza del permesso di soggiorno – si trova qui dentro per un problema di documenti. C’è l’ex prostituta, portata qui dalla tratta e finita in questura dopo una retata, mentre suo figlio di due anni è a Napoli da un’amica. Ci sono materassi di gommapiuma e lenzuola di carta velina, tipo quelli delle cuccette sui treni, e pantofole tutte uguali, e panni stesi, e lamette da barba ingoiate per non partire più. Sarebbe bello che, un giorno, Maroni passasse di qui.

Luca