Andrea Sarubbi, dopo vari tentativi, è riuscito a visitare insieme ad altri parlamentari il CIE di Roma, dove vengono “accolti” gli immigrati clandestini per un tempo massimo di 18 mesi.
C’è chi dice che i CIE siano come delle prigioni.
Non è vero.
Sono molto peggio.
Uno può trovare tutti i sinonimi che vuole, ma io un posto del genere lo chiamo carcere. Un posto, voglio dire, con grate alte una decina di metri, e 27 telecamere che vigilano 24 ore al giorno, e soldati dell’esercito a controllare i monitor, e poliziotti a darsi il cambio con carabinieri e Guardia di Finanza. Anzi, il carcere è un po’ meglio, perché almeno a Rebibbia le cooperative sociali ti fanno lavorare, i volontari ti portano libri, il cappellano ti sta ad ascoltare, e se ti va bene trovi pure un bigliardino per fare una partita ogni tanto. Qui, al Cie di Ponte Galeria, non si può: le stecche del calcio balilla sono di ferro e dunque potenziali armi, i libri sono materiale infiammabile e dunque potenziali torce. E poco conta che le camere non abbiano sbarre alle finestre: le sbarre sono dieci metri più in là, alla fine del cortiletto che divide un complesso dall’altro.
I CIE sono l’ennesimo tributo pagato alla incapacità di governare e di legiferare della nostra classe politica.
C’è gente, fra questi 318, che ha già scontato tre anni di carcere in Italia e che ora attende di essere identificata: che cosa ha fatto, allora, il ministero della Giustizia nei tre anni precedenti? C’è la signora in pigiama che faceva la badante, e che ora – dopo la scadenza del permesso di soggiorno – si trova qui dentro per un problema di documenti. C’è l’ex prostituta, portata qui dalla tratta e finita in questura dopo una retata, mentre suo figlio di due anni è a Napoli da un’amica. Ci sono materassi di gommapiuma e lenzuola di carta velina, tipo quelli delle cuccette sui treni, e pantofole tutte uguali, e panni stesi, e lamette da barba ingoiate per non partire più. Sarebbe bello che, un giorno, Maroni passasse di qui.
Luca