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diritti umani

Fortuna che non abbiamo fatto la guerra in Siria

Jacopo Zanchini, vicedirettore di Internazionale, ha pubblicato stamani questa foto.
Non è il set di un film apocalittico, è Homs, Siria, Dicembre 2013.

Chiamatela pace.

Luca

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diritti umani politica

No alla guerra, anche se la guerra c’è già

Rimango un po’ basito nel leggere dichiarazioni pubbliche e private di persone più o meno famose sul possibile attacco in Siria.

Molti dicono di essere contrari alla guerra.
Del resto, lo siamo tutti, o quasi.
Qui però non stiamo parlando di invadere l’Iraq per rovesciare un regime.
E nemmeno di dichiarare guerra all’Afghanistan perché offre copertura e riparo ai terroristi.

In Siria la guerra c’è già.
Da almeno un anno e mezzo.
Ed ha fatto almeno 100.000 morti e 2 milioni di profughi.

Poi, per carità, accetto tutte le prese di posizione, favorevoli o contrarie.
Ma se dite “No alla guerra!” aspettatevi che qualcuno vi batta su una spalla e vi dica “Amico, la guerra c’è già”.
E forse sarebbe giusto fare qualcosa per fermarla.

Più di un anno fa Amnesty Internationl rese pubblico un rapporto fatto da Donatella Ravera che aveva visitato la Siria.

Ovunque sia andata, ho incontrato persone stravolte che chiedevano perché il mondo stesse a guardare e non facesse nulla. Questa mancanza d’azione da parte della comunità internazionale non fa che incoraggiare ulteriori violazioni. Poiché la situazione continua a peggiorare e il computo delle vittime civili sale di giorno in giorno, la comunità internazionale deve agire per porre fine alla spirale di violenza.

Sarà la paternità ad avermi reso fragile, ma secondo me i bambini morti gassati per mano di Assad varrebbero l’attacco con droni contro postazioni siriane.

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Bodies of children whom activists say were killed by gas attack in the Ghouta area, lay on floor in the eastern suburbs of Damascus August 21.(Mohamed Abdullah/Reuters)

E se l’attacco con i droni causasse vittime civili?
Li causerà di sicuro.
Abbiamo finora armato i ribelli, che non sono migliori del regime che combattono. La guerra la stiamo già facendo per interposta persona. Stiamo già facendo vittime civili.
Bisogna scegliere tra un male ed un altro male.
Assad continuerà la strage finché la comunità internazionale non interverrà.

Poi facciamo pure la nostra invocazione contro la guerra, diciamo la nostra preghierina e chi se ne frega.
Ma essere contrari ad un intervento militare contro la Siria non significa essere per la pace.
Significa semplicemente fregarsene del popolo siriano e girare la testa da un’altra parte.

Luca

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diritti umani

Quanto deve essere grande il cimitero della mia isola?

Mi ero perso la lettera scritta tre mesi fa dal nuovo sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini.

Sono il nuovo Sindaco delle isole di Lampedusa e di Linosa. Eletta a maggio, al 3 di novembre mi sono stati consegnati già 21 cadaveri di persone annegate mentre tentavano di raggiungere Lampedusa e questa per me è una cosa insopportabile. Per Lampedusa è un enorme fardello di dolore. Abbiamo dovuto chiedere aiuto attraverso la Prefettura ai Sindaci della provincia per poter dare una dignitosa sepoltura alle ultime 11 salme, perché il Comune non aveva più loculi disponibili. Ne faremo altri, ma rivolgo a tutti una domanda: quanto deve essere grande il cimitero della mia isola? Non riesco a comprendere come una simile tragedia possa essere considerata normale, come si possa rimuovere dalla vita quotidiana l’idea, per esempio, che 11 persone, tra cui 8 giovanissime donne e due ragazzini di 11 e 13 anni, possano morire tutti insieme, come sabato scorso, durante un viaggio che avrebbe dovuto essere per loro l’inizio di una nuova vita. Ne sono stati salvati 76 ma erano in 115, il numero dei morti è sempre di gran lunga superiore al numero dei corpi che il mare restituisce. Sono indignata dall’assuefazione che sembra avere contagiato tutti, sono scandalizzata dal silenzio dell’Europa che ha appena ricevuto il Nobel della Pace e che tace di fronte ad una strage che ha i numeri di una vera e propria guerra. Sono sempre più convinta che la politica europea sull’immigrazione consideri questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente. Ma se per queste persone il viaggio sui barconi è tuttora l’unica possibilità di sperare, io credo che la loro morte in mare debba essere per l’Europa motivo di vergogna e disonore. In tutta questa tristissima pagina di storia che stiamo tutti scrivendo, l’unico motivo di orgoglio ce lo offrono quotidianamente gli uomini dello Stato italiano che salvano vite umane a 140 miglia da Lampedusa, mentre chi era a sole 30 miglia dai naufraghi, come è successo sabato scorso, ed avrebbe dovuto accorrere con le velocissime motovedette che il nostro precedente governo ha regalato a Gheddafi, ha invece ignorato la loro richiesta di aiuto. Quelle motovedette vengono però efficacemente utilizzate per sequestrare i nostri pescherecci, anche quando pescano al di fuori delle acque territoriali libiche. Tutti devono sapere che è Lampedusa, con i suoi abitanti, con le forze preposte al soccorso e all’accoglienza, che dà dignità di esseri umane a queste persone, che dà dignità al nostro Paese e all’Europa intera. Allora, se questi morti sono soltanto nostri, allora io voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che mi viene consegnato. Come se avesse la pelle bianca, come se fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza.

Val la pena rileggerla, in giorni in cui la politica sembra avere un orizzonte limitato al 25 Febbraio.
L’unica lodevole eccezione è quella del PD, che domani tramite Livia Turco proverà a riprendere un dialogo con l’isola che da anni ormai rappresenta il primo porto sicuro per un fiume di migranti disperati.

Luca

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politica religione

La ferita inflitta alla pace. Ma anche no

Questo è un post lungo e noioso, ma me l’avete chiesto voi e ora ve lo sorbite.

Ho un pubblico attento che mi chiede spiegazioni sul perché avessi qualche giorno fa ritenuto utile e condivisibile il post scritto da Andrea Sarubbi, deputato del PD ed ex giornalista RAI, nel quale commentava le parole del Papa che definivano i matrimoni gay come una ferita inflitta alla pace.

Mi lusingate, non pensavo che la mia opinione fosse così degna di attenzione, quindi vorrei un attimo precisare la questione.

Mi si dice che, come al solito, le parole del Papa sono state equivocate. Come dire, pure a noi queste parole sembrano sbagliate, ma la colpa è dei giornalisti che riportano sempre porzioni di discorso, estrapolandole da un riflessione più complessa.
Ci sarebbe da dire che se ogni santa volta equivocano quello che dici, forse varrebbe la pena rivedere un attimo la strategia di comunicazione, perché se io ti chiedo di passarmi il sale e te ogni volta mi passi l’olio, allora forse sono io che non so parlare.

Le parole, prese dal messaggio per il 1 Gennaio 2013, giornata mondiale della pace, sono queste.

Anche la struttura naturale del matrimonio va riconosciuta e promossa, quale unione fra un uomo e una donna, rispetto ai tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale.
Questi principi non sono verità di fede, né sono solo una derivazione del diritto alla libertà religiosa. Essi sono inscritti nella natura umana stessa, riconoscibili con la ragione, e quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa. Tale azione è tanto più necessaria quanto più questi principi vengono negati o mal compresi, perché ciò costituisce un’offesa contro la verità della persona umana, una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace.

Queste parole seguono una dissertazione sulle violazioni contro la vita, quindi la ferita inflitta alla pace si riferisce probabilmente anche (e soprattutto) a queste:

Ogni lesione alla vita, specie nella sua origine, provoca inevitabilmente danni irreparabili allo sviluppo, alla pace, all’ambiente. Nemmeno è giusto codificare in maniera subdola falsi diritti o arbitrii, che, basati su una visione riduttiva e relativistica dell’essere umano e sull’abile utilizzo di espressioni ambigue, volte a favorire un preteso diritto all’aborto e all’eutanasia, minacciano il diritto fondamentale alla vita.

Detto questo, la semplificazione fatta dai giornali “I matrimoni gay sono una ferita inflitta alla giustizia e alla pace” è una semplificazione, appunto, ma è sostanzialmente corretta.
E’ quello che ha detto il Papa.
Se non vuoi che i giornali possano equivocare, separi bene le cose, prima parli degli attacchi contro la vita umana e li associ alla pace, e poi parli dei matrimoni gay. I giornalisti hanno fatto il loro lavoro.

Cosa aveva scritto Andrea Sarubbi di tanto bello e giusto? Sostanzialmente due cose.
La prima, che la politica dovrebbe farla finita di considerare le parole del Papa alla stregua di sentenze delle Corte Costituzionale.

[…]la colpa è tutta della politica, e in particolare di noi cristiani impegnati nel campo: se smettessimo di utilizzare le parole del Pontefice come se fossero sentenze della Corte costituzionale, magari faremmo un servizio a noi stessi e alla nazione. Ognuno di noi, sul tema, potrà avere le proprie convinzioni, ed è giusto confrontarci apertamente; per la credibilità che dobbiamo a noi stessi e alle istituzioni in cui operiamo, però, dobbiamo chiarire agli elettori che l’agenda politica dell’Italia si scrive solo in Parlamento. E vale pure per l’immigrazione, sia chiaro: il giorno in cui la destra si dirà favorevole alla cittadinanza ai figli degli immigrati soltanto perché lo ha sentito da Benedetto XVI nel post-Angelus, anziché confrontarsi con noi nel merito della questione, potremo portare a casa un risultato ma non sarà comunque una vittoria della buona politica. Ma i giornalisti, che non sono poi così fessi, hanno capito tutto in anticipo: e quindi la notizia di oggi – parliamoci chiaro – non sono le parole del Papa, ma la loro possibile ripercussione sull’atteggiamento delle forze politiche in campagna elettorale.

La seconda, che il Papa ha ucciso un moscerino con un bazooka.

C’è poi il secondo aspetto di cui parlavo, quello della metafora utilizzata da Benedetto XVI: già quando il Papa dice – e lo fa spesso – che il riconoscimento giuridico di unioni dello stesso sesso è “un attentato alla famiglia tradizionale” mi riesce complicato capire il nesso tra i due argomenti; quando arriva addirittura a scomodare “la pace”, poi, mi arrendo del tutto. E mi ritornano in mente la Gaudium et spes, che negli anni del Concilio Vaticano II cambiò le carte in tavola rispetto all’insegnamento tradizionale sulla teoria della guerra giusta, e – forse con un po’ di demagogia, lo ammetto – anche i 40 mila morti in Siria, dove pure l’omosessualità è espressamente vietata dal Codice penale, ma la pace non se la passa benissimo.

Che poi il messaggio del Papa sia stato divulgato poche ore prima della strage di Newtown è una coincidenza, tragica ed ironica, che ha fatto pensare un po’ a tutti: “Scusi, Santo Padre, stavamo parlando di ferite infiltte alla pace?”

Ma sulla casualità, le strategie di comunicazione non possono fare quasi nulla.
E’ solo un tragico ed amarissimo scherzo del destino, su cui i gay più ironici avranno sorriso, mentre altri avranno versato le nostre stesse lacrime, incattivite dall’essere stati considerati una minaccia contro la pace.

Ecco, spiegato meglio, il mio pensiero sul discorso di Benedetto XVI.
Nessun equivoco, il Papa quello ha detto.

Se poi, come mi si fa notare, il mio essere sempre in dissenso mi dovrebbe far riflettere sulla mia fede, questo è un altro discorso, vorrei rassicurare tutti.
Mi tocca rifletterci fin troppo spesso sulla mia fede.
Non è l’ennesimo discorso avventato del Papa a peggiorare la situazione.
Ci sono tristemente abituato.

Grazie comunque per il vostro interesse.

Luca

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diritti umani politica

La ferita

G8 Genova 2001
“Un altro mondo è possibile”. Manifesto per le giornate del summit del G8 di Genova. (Genova 20.07.01). Foto di Giulio Spiazzi

Ho appena finito di leggere La Ferita di Marco Imarisio, giornalista del Corriere, libro sul G8 di Genova, ma che in realtà parla di molte cose successe prima e di moltissime altre successe dopo quei tre giorni disgraziati del 2001.

Il sottotitolo dice molto dell’oggetto di questo libro: “Il sogno infranto dei no global italiani”.
Perché il G8 di Genova è stato si un grave episodio di repressione da parte di uno stato contro i suoi cittadini, violenze e torture comprese, ma è stato soprattutto la morte del movimento no global italiano.

Marco Imarisio parla molto di questo e lo fa molto bene, con un’analisi attenta di chi conosce bene i movimenti e le sue dinamiche.
Ci sono le cronache di quei giorni, il racconto della scellerata carica dei carabinieri in via Tolemaide che spezzò il corteo e generò tutto quello che venne dopo, cè la Diaz e c’è Bolzaneto.
Ci sono anche Luca Casarini e Piero Bernocchi e la loro cialtrona gestione di quei giorni e pure di quelli che vennero dopo.
C’è Fausto Bertinotti ed il suo tentativo di trasformare Rifondazione nel partito del movimento e di quella volta che in un’assemblea in un centro sociale per poco non ne uscì con le ossa rotte.

Se il G8 di Genova è stato per voi, come per me, la perdita dell’innocenza, vi consiglio il libro di Marco Imarisio.

Leggendo il libro ho evidenziato tre passaggi, che vi ripropongo.

Non era mai successo prima, nei fatti si tratta della costituzione di un soggetto politico che ha la sua base nei centri sociali, mai così coesi come in quel momento, e mette al centro del suo impegno i temi dell’immigrazione e della precarietà. Non si ripeterà più, e ancora oggi è lecito chiedersi cosa sarebbe stato di quella esperienza senza la ferita di Genova. Forse le pulsioni violente, che pure c’erano, sarebbero state diluite. Forse sarebbe cambiato lo sguardo delle istituzioni su certe realtà ai margini. Non lo sapremo mai.

Al contingente di cento carabinieri inviato a proteggere il battaglione che sta caricando in via Tolemaide arriva il seguente ordine: “Confermo che devi scendere per corso Gastaldi con tutti i tuoi uomini, però devi fare una cosa veloce e devi massacrare. Capito? Devi massacrare”. Questi sono i fatti che portano alla morte di Carlo Giuliani. Uno strano impasto di imperizia, caos organizzativo, rivalità tra corpi dello stato, odio che ribolliva nella pancia dei suoi uomini. Uno ha sbagliato strada, un altro si è arrabbiato ma non poteva farci nulla, le Tute bianche hanno reagito. Un ragazzo di ventitré anni non è tornato a casa.

C’erano anche loro, i cattolici. Uno degli errori più gravi compiuti dal movimento è stata la costante sottovalutazione del loro contributo. Accolti quando c’era da fare numero, mai ascoltati nelle loro poche richieste per un percorso comune. La Rete Lilliput fondata da Zanotelli è stata forse una delle novità più importanti di quella stagione, capace di mobilitare associazioni e singoli cittadini, di mischiare laici e credenti. È rimasta con il movimento anche quando la ritirata era ormai nei fatti, ricevendo in cambio insulti e insinuazioni da parte della gerarchia cattolica. Non pretendeva molto, per restare.

Se poi vi interessa, su YouTube c’è la presentazione fatta dall’autore.

Luca

Foto | #ioricordogenova