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Il resto è solo vento per le bandiere

Dario Di Vico sul Corriere di oggi mi sembra faccia una riflessione perfetta su ciò che è successo ieri a Roma.
E dice come lo scontro tra CGIL e Renzi rischi di farci perdere di vista l’obiettivo vero.
Che è quello di salvare posti di lavoro, quando è possibile, e di farci uscire dalla crisi senza andare a colpire nuovamente la classe media, che siamo noi.

Dell’uso dei manganelli d’un tempo avremmo fatto volentieri a meno. La vertenza degli operai dell’Ast per evitare il drastico ridimensionamento dello stabilimento di Terni si presenta ancor più complessa di altre perché oltre agli orientamenti liquidatori dei proprietari tedeschi – nei confronti di un impianto considerato eccellente per gli standard del settore – si paga il prezzo di regole europee non più al passo con i tempi. In uno scenario di business ormai contrassegnato dall’ascesa delle potenze siderurgiche asiatiche, l’Antitrust di Bruxelles ha impedito la vendita dello stabilimento ai finlandesi dell’Outokumpu per evitare che assumessero una posizione dominante e così la fabbrica umbra è tornata a far parte del gruppo Thyssen che la considera residuale.

Mentre dunque c’è da affrontare questa crisi, e forse da aprire una contestazione con la Commissione Ue appena insediatasi, ieri la tensione tra manifestanti e forze dell’ordine ha occupato quasi totalmente la scena e abbiamo passato la giornata non più a discutere di politica industriale bensì di attribuzione di colpe al ministro competente, al questore o al singolo poliziotto. I metalmeccanici di Genova, appena informati dell’accaduto, hanno addirittura indetto uno sciopero per domani. H a senso tutto ciò o forse è necessario un bagno di realtà? È utile infilare la vertenza Ast nel tritacarne delle polemiche tra Palazzo Chigi e i sindacati? In un caso altrettanto spinoso, come quello della svedese Electrolux che inizialmente voleva lasciare l’Italia, governo e organizzazioni sindacali di categoria hanno lavorato nella stessa direzione e un risultato comunque lo si è ottenuto.

È chiaro che, pur evitando di confondere ordine pubblico e politica industriale, non si può dimenticare come l’iniziativa del premier Matteo Renzi stia scardinando vecchi equilibri e che questa pressione stia generando una contrapposizione ruvida. Al punto che sono stati evocati come suoi mandanti morali e materiali, in successione, Margaret Thatcher e Sergio Marchionne. In omaggio al principio à la guerre comme à la guerre nella battaglia mediatica non si va tanto per il sottile ma è lecito chiedersi a cosa serva tutto ciò e quale sia il legame tra comunicazione e soluzione dei problemi reali. Prendiamo lo sciopero generale che verrà indetto tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre e che, forse, solo un’incauta anticipazione di Nichi Vendola ha contribuito a ritardare.

La parola d’ordine su cui la Cgil punterà tutte le sue carte per far riuscire l’astensione dal lavoro è la richiesta dell’adozione di una tassa patrimoniale. Non è certo la prima volta che se ne parla negli ultimi anni e non è un caso che alla fine non sia stata mai adottata. Il motivo è semplice: con altissima probabilità la nuova imposta non finirebbe per colpire le grandi ricchezze bensì una parte consistente del ceto medio, già ampiamente tosato dalle imposizioni sulla forma di patrimonio più diffusa (la proprietà della casa). E allora ha senso proporre uno sciopero generale, per di più della sola Cgil, con l’obiettivo di far salire ancora la pressione fiscale? Si pensa davvero che si possa uscire dall’impasse riproponendo la vecchia e fallimentare ricetta del «tassa e spendi»? È questa la vera discussione da fare, il resto è solo vento per le bandiere.

Luca

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La Lega di Calderoli e la morte del PD

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Oggi siamo giustamente indignati per il tentativo della Lega di recuperare la sua base elettorale tramite le invettive razziste dei suoi più spregiudicati dirigenti.

Dobbiamo però essere onesti con noi stessi e ricordarci che è la stessa Lega che in più occasioni il PD ha tentato di sedurre pur di riuscire a far cadere Berlusconi.
Nel 2011 Bersani rilasciò un’intervista a La Padania che, letta oggi, fa accapponare la pelle come allora.

Lo ricorda il collettivo Wu Ming in un post pubblicato sul sito di Internazionale che traccia un’analisi condivisibile del perché il PD non sia riuscito a caratterizzarsi come partito con un’identità definita arrivando perfino a governare insieme a quel Berlusconi il cui abbattimento rendeva plausibile perfino un accordo con un partito xenofobo e razzista.

La normalizzazione forzosa e l’abbattimento delle dogane filosofiche e culturali servono ai buoni affari, agli appalti, alle grandi opere, alle colate di cemento sui territori e sulla testa delle popolazioni, ma nuocciono ad altri aspetti, che toccano altrettanto la sostanza della vita civile e le sorti collettive.

Del resto, il Partito democratico si fonda precisamente su due equivoci culturali, quelli che lo rendono ab origine una forza politica del tutto inservibile per qualsivoglia riforma (e tutt’al più utile per alcune controriforme): la pretesa di essere al tempo stesso liberisti e socialdemocratici, da un lato; e quella di essere laici e filoconfessionali, dall’altro. Questo determina l’impasse, poi l’immobilità, via via fino al rigor mortis.

La terra di mezzo che il PD abita dalla sua nascita è una terra sterile, che non dà frutti.
Non si prende mai una strada precisa, si prova sempre a percorrere un solco ormai arido che non porta in nessun luogo.
E’ la politica del prendere tempo, del non decidere mai niente, del rimandare a domani, del non schierarsi mai, sperando di avere prima o poi una legittimazione popolare che, invece non arriverà e che in ogni caso non basterebbe a dare una linea di governo ad un partito che una linea non ce l’ha.

La vicenda dei reiterati insulti alla ministra Kyenge per il fatto di essere nera e donna (qualcuno infatti ha anche inneggiato allo stupro, ma così, tanto per scherzo…) è una perfetta cartina al tornasole.

Il governo del non-fare, che in questo momento occupa la plancia del Titanic facendo finta di pilotare, ha in organico una ministra la cui designazione può significare una cosa sola: ius soli. Ma lo ius soli non potrà mai essere finché si ha la necessità di abbozzare con gli alleati di governo e di normalizzare certi avversari impresentabili. Di stare cioè tutti insieme appassionatamente sul transatlantico.

Così come non si potrà mai avere una legge decente sulla fecondazione eterologa, né i matrimoni gay ormai approvati in tutto il mondo occidentale, né l’attuazione della legge 194 sull’interruzione di gravidanza (attualmente disattesa grazie alla presenza dell’80 per cento di obiettori di coscienza negli ospedali italiani), né la riduzione dei finanziamenti alle scuole private paritarie confessionali in favore del rifinanziamento della scuola pubblica… se si deve tenere buona la propria componente confessionalista cattolica.

I sedicenti democratici non possono scegliere tra gli operai e Marchionne, tra lo stato laico e la chiesa, tra la libertà e la discriminazione, perché hanno deciso che tutto si può tenere assieme, che il conflitto può essere negato, e di questa negazione hanno fatto la propria ragione sociale. Ma è una ragione sociale fallata, che infatti ha prodotto una débâcle clamorosa. Un partito che era nato con tre obiettivi: sconfiggere Berlusconi, diventare maggioritario, fare le riforme, è riuscito a mancarli tutti. Date le premesse, le cose non sarebbero potute andare diversamente.

Bersani e i suoi sodali meritano il paese che hanno contribuito a costruire. Un paese dove una ministra viene sfottuta e insultata da un rappresentante delle istituzioni perché è nera. Dove solo una donna su due ha un impiego. Dove le donne povere hanno ripreso ad abortire clandestinamente. Dove il monte ore di cassa integrazione sembra l’Everest e i lavoratori di qualunque età vivono in bilico tra precarietà e disoccupazione. Dove solo un bambino su dieci ha un posto all’asilo nido. Dove i cittadini stranieri sono sottoposti al ricatto dei datori di lavoro per avere il permesso di soggiorno, senza il quale rischiano di essere espulsi, dopo essere transitati per le prigioni etniche (istituite dalla legge Turco-Napolitano nel 1998). Dove i movimenti sociali che cercano di opporsi all’avanzata del peggio vengono manganellati e repressi.

Certo è chiedere troppo che i sedicenti democratici si rendano conto di essere ormai il principale ostacolo politico alla rinascita di una sinistra che possa dirsi tale. Tuttavia potrebbero almeno risparmiarci lo spettacolo ipocrita della loro chiassosa indignazione per le battute dei razzisti che fino a ieri consideravano buoni interlocutori.

Non si capisce perché gli italiani dovrebbe dar fiducia ad un partito così poco definito, senza idee, o forse con troppe idee e nessuna capacità di sintesi.

Gli indignati di oggi contro la Lega potrebbero domani essere gli stessi che torneranno a corteggiarla per cercare di andare al governo e, ancora una volta, non riuscire a governare.

Il PD sarà salvato soltanto dal normale procedere degli eventi che, prima o poi, vedranno uscire di scena Berlusconi ed il quadro politico italiano tornerà ad essere quello che è in ogni paese occidentale, costituito cioè da un centro-destra conservatore e da un centro-sinistra progressista.

L’esperimento è fallito, inutile continuare a girarci intorno.
La salvezza del PD sarà la morte del PD come lo abbiamo conosciuto.

Non credo che il lutto durerà per molto.

Luca

Immagine | GoodNews

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lavoro politica

Caro Marchionne, questa volta abbiamo preso appunti

obama e marchionne

Mi pare che non sia stato dato troppo seguito alle parole dette ieri da Marchionne; forse perché le ha dette in occasione del Quattroruote Day, che fa un po’ ridere, ma sono parole che sono pietre.

Ve le riassumo:
Le promesse fatte per l’Italia saranno mantenute, entro 3-4 anni tutti i dipendenti FIAT saranno impiegati nelle fabbriche e finirà la cassa integrazione. Entro il 2016 saranno presentati 17 nuovi modelli e 7 aggiornamenti su modelli esistenti. I due anni di cassa integrazione straordinaria richiesti per lo stabilimento di Melfi sono necessari per ristrutturare gli impianti in vista della produzione della 500x e della omologa Jeep. La stessa cosa era successa a Grugliasco, dove la fabbrica è stata chiusa un anno per permettere di far partire la produzione delle nuove Maserati. Ancora nessun investimento su Mirafiori.

Marchionne ha poi detto:

Alla fine, dopo tutta questa caciara gli unici a non chiudere certamente siamo noi.

Insomma, buone notizie dalla FIAT.

Noi abbiamo preso appunti. Se poi cambi idea, caro Sergio, non ti incazzare con noi.

Luca

Foto | Quattroruote

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politica

C’hai il pisello piccolo e la mamma maiala

firenze

Le parole di Marchionne su Firenze (“città piccola e povera”) per replicare alla forzata dichiarazione di Renzi contro il fallimento del progetto Fabbrica Italia appaiono sconclusionate e fuori luogo.

Renzi ha forzato la mano, dicendo che Marchionne avrebbe preso in giro i lavoratori ed i politici con la mancata attuazione degli investimenti in Italia, perché Marchionne non ha preso in giro nessuno, ha semplicemente fallito. Doveva produrre, e quindi vendere, molte più macchine di quando il progetto è iniziato, e ne vende addirittura di meno.
Certo, la crisi, il costo dei carburanti, tutto quello che vogliamo, ma Marchionne ha fallito. Non ha preso in giro nessuno, oggi sarebbe lui il primo ad essere felice per il successo della FIAT in Italia.

All’attacco molto elettoralistico di Renzi, Marchionne ha però replicato in modo inaccettabile.
Avrebbe dovuto dire “Che ne sai tu, ragazzino, che in fondo non sei che il Sindaco di una città di medio-piccole dimensioni, per di più mantenuta piuttosto male, mentre io sono a capo di un grande gruppo automobilistico?”.
Ed invece se ne è venuto fuori con la città piccola e povera che è una affermazione che non ha nessun senso.
Firenze è si una città di piccole dimensioni, ma è una città immensa in quanto a storia, contenuti artistici, flussi turistici.
Ed è tutt’altro che povera.

Proprio il suo essere una città tutt’altro che povera rende inaccettabile il suo stato di mantenimento.
Il lunedì mattina il centro di Firenze è una latrina imbarazzante.
Discutiamo di questo.

Con le sue affermazioni Marchionne non ha fatto altro che rendere un po’ più semplici le primarie di Renzi ed un po’ più complicata la vita degli uffici commerciali delle concessionarie FIAT del fiorentino.
Il CEO di un grande gruppo automobilistico dovrebbe essere molto più attento a quello che dice.
E magari liberarsi di quella spocchia intollerabile.

E comunque, stanno facendo di tutto per far vincere le primarie a Renzi.

Luca

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lavoro

Se Marchionne avesse senso dell’umorismo

Dicevo, se Marchionne non fosse così pieno di sè stesso ed avesse un pochino di senso dell’umorismo, farebbe bene a leggersi con attenzione la vignetta di Makkox e si farebbe delle domande.

Ma Marchionne non ha senso dell’umorismo, non la leggerà e, pure se la leggesse, non la capirebbe.

Ma l’immagine che abbiamo di lui e del piano industriale della FIAT è molto simile a quella raccontata da Makkox.

Luca