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Le botte a Roma

black block roma
(AP Photo/Gregorio Borgia)

Ieri questo post di Pippo Civati, mi aveva messo qualche pulce nell’orecchio.
Pare che il casino successo oggi a Roma fosse in qualche modo previsto.
O almeno, girava voce che potesse andare a finir male.

Quello che mi preoccupa, però, è il tasso di violenza annunciato in occasione della giornata di domani. Perché il fatto di avere una piazza che perde il controllo di sé, può costituire un pericolo per i partecipanti (ovviamente) ma anche per la nostra vita democratica. E soprattutto per le ragioni stesse di coloro che domani andranno in piazza. Che potrebbero perdersi nella confusione, come è già accaduto in passato. E dare voce a chi la pensa all’esatto opposto.

Per questo, lo chiedo a tutti coloro che parteciperanno domani, con lo stesso slancio di chi vi ha chiesto di indignarvi: non menatevi! Perdereste una grande occasione per dimostrare che il mondo può cambiare.

Alessandro Gilioli era là ed ha raccontato più o meno come sono andate le cose. Che vanno avanti così almeno da venti anni, ogni volta che c’è una grossa manifestazione.

Poi io non so che cosa è successo, ma di sicuro è successo all’improvviso.
Voglio dire, non so da dove sono sbucati quelli con i caschi – i black blocs – e non ho visto chi «ha cominciato per primo», ammesso che questo abbia una qualche importanza.
Quello che mi ha colpito è stato come tutto sia cambiato all’improvviso.
In un attimo la piazza è diventata un casino di sirene, botti, sassaiole, idranti, lacrimogeni. In pochi minuti l’aria è diventata irrespirabile.

Luca

Foto | Il Post

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vivere

Ceffoni ai figli

Ora, i figli a volte i ceffoni se li meriterebbero anche.
Io, tu, tutti ce li siamo meritati.
Il punto non è quello.
Il punto è che i ceffoni sono la negazione di quello che un genitore tenta di insegnare ai figli.
Provo a dimostrarti che nella vita è bene rispettare gli altri, il tuo fratello, i tuoi genitori, i tuoi amici, pure il cagnolino.
Poi se mi fa arrabbiare, però IO posso picchiarti.
È evidente che c’è qualcosa che non torna.
Aldilà della violenza.

L’altro giorno, mentre aspettavo l’autobus a Porta Romana, davanti al Bar Petrarca, arriva un tamarro con una golf.
Parcheggia in divieto di sosta davanti al negozio della Vodafone.
In auto ci sono la moglie ed il bimbo, età 4 anni forse, che se ne sta seduto dietro, senza cinture, nonostante ci sia anche un seggiolino da bambini accanto a lui.
La moglie scende, per poco non viene travolta da uno scooter e cerca di far scendere il bimbo che, non si sa perché, si rifiuta.
Dopo una breve trattativa, il bimbo viene trascinato fuori dalla madre.
Il padre scende, controlla la sua macchina tamarra e, mentre si appresta ad entrare nel negozio della Vodafone per comprare probabilmente un tamarrissimo smartphone, assesta due manate sulla nuca del bimbo.
Così, tanto per ricordargli chi è che comanda.

Ecco, quando il giorno dopo ho letto che avevano arrestato in Svezia un signore italiano che aveva schiaffeggiato il figlio per la strada, ho pensato che fosse il signore tamarro con la golf e sono stato contento.

Luca

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politica

La libertà non è tirare l’ammoniaca in faccia

Sulla vicenda della No-TAV cè tanto da dire, ma alla fine basta quello che ha scritto il Presidente Napolitano.

Su tutto però bisogna chiarire una cosa.
Preparare delle bombe all’ammoniaca per tirarle a poliziotti ed operai non è giustificabile mai.
Le azioni non violente, anche odiose come violare zone interdette, sono una cosa.
Tentare di sfregiare la faccia di chi si ha davanti è tutt’altra cosa.

Poi ci sarebbero anche altre cose da dire.
Che ad esempio la gente non ha ancora ben capito cosa significhi essere un Partito Democratico e che quello che sta succedendo in questi giorni ci chiarisce perché il PD debba essere diverso da SeL e IDV.
In questo senso il commento di Bersani è sottoscrivibile cento volte:

Non si tratta piu’ di come si fa una ferrovia ma di come funziona una democrazia.

In uno stato normale vengono prese delle decisioni, ma una volta prese le si portano avanti, specialmente quando queste decisioni sono state discusse e ridiscusse.

Non c’è nessuna grande dimostrazione di democrazia nello stare sempre dalla parte di chi fa casino.

Luca

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libri

Concita

Il libro l’ho letto tempo fa, ma ve ne parlo oggi perché ieri sera sono stato ancora una volta sorpreso dalla bravura di Concita De Gregorio, capace di sopportare gli urli di La Russa senza perdere il filo e senza cedere alla tentazione di alzare il volume della voce.

Insomma, tempo fa ho letto Malamore. Esercizi di resistenza al dolore, una raccolta di storie di donne raccontate da Concita De Gregorio.

E’ un libro che gli uomini dovrebbero leggere.

Si parla di donne, ma si parla soprattutto dei soprusi degli uomini.
Che iniziano con non tirare l’acqua dello sciacquone del bagno e magari finiscono nel tentare di zittire con la violenza verbale una brava giornalista in diretta televisiva.

Mentre la guardavo ieri prendersi in faccia gli urli di La Russa, ripensavo a quanto sarebbe stato utile al ministro leggere il suo libro.

Non sarebbe mai troppo tardi per ammettere quanto le donne abbiano da insegnarci.

Le donne provano la temperatura del ferro da stiro toccandolo. Brucia ma non si bruciano. Respirano forte quando l’ostetrica dice “non urli, non è mica la prima”. Imparano a cantare piangendo, a sciare con le ossa rotte. Portano i figli in braccio per giorni in certe traversate del deserto, dei mari sui barconi, della città a piedi su e giù per gli autobus. Le donne hanno più confidenza col dolore. È un compagno di vita, è un nemico tanto familiare da esser quasi amico. Ci si vive, è normale. Strillare disperde le energie, lamentarsi non serve. Trasformarlo, invece: ecco cosa serve. Trasformare il dolore in forza. È una lezione antica, una sapienza muta e segreta: ciascuna lo sa.
Maria Malibran, leggendario mezzosoprano, che impara a nascondere le lacrime durante le terribili lezioni di canto inflitte dal padre. Denise Karbon che scia ingessata, Vanessa Ferrari che volteggia con una frattura al piede. La prostituta bambina che chiude gli occhi e pensa al prato della sua casa nei campi. La giovane donna che si lascia insultare e picchiare dal suo uomo perché pensa che quella sua violenza sia una debolezza: pensa di capirne le ragioni, di poterle governare, alla fine. Le migliaia, milioni di donne che vivono ogni giorno sul crinale di un baratro e che, anziché sottrarsi quando possono, ci passeggiano in equilibrio: un numero da circo straordinario, questo di cercare di addomesticare la violenza – la violenza degli uomini – qualche volta andando a cercarla, persino. Perché è un antidoto, perché è un prezzo, perché il tempo che viviamo chiede uno sforzo d’ingegno per conciliare la propria autonomia con l’altrui brutale insofferenza.
Le storie che ho raccolto sono scie luminose, stelle cadenti che illuminano a volte molto da lontano una grande domanda: cosa ci induce a non respingere, anzi a convivere con la violenza? Perché sopporta chi sopporta, e come fa? Quanto è alta la posta in palio? Alcune soccombono, molte muoiono, moltissime dividono l’esistenza con una privata indicibile quotidiana penitenza. Alcune ce la fanno, qualche altra trova nell’accettazione del male le risorse per dire, per fare quel che altrimenti non avrebbe potuto. Sono, alla fine, gesti ordinari. Chiunque può capirlo misurandolo su di sé. Sono esercizi di resistenza al dolore.

Ve lo consiglio, davvero.

Luca