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politica

Storie americane

Come fa notare stamani Francesco Costa, stanotte ad assistere al Discorso sullo stato dell’Unione di Obama, erano presenti anche questi due uomini della foto.
Sono Carlos Arredondo e Jeff Bauman.
Bauman è il famoso ragazzo con una gamba spappolata dalla bomba esplosa durante la maratona di Boston, Arredondo è il tipo con il cappello da cowboy che lo soccorse.

bauman arredondo

Se non la conoscete, la storia di Arredondo e Bauman è incredibile.
Una storia molto americana, molto bella, perfetta per uno di quei film in cui ti commuovi come un bambino.
La raccontò il Post.

Poco prima di finire ritratto in una delle fotografie più viste al mondo degli ultimi mesi, Jeff Bauman stava aspettando la sua fidanzata.
[…]
Bauman si ritrovò sdraiato a terra sul marciapiede, stordito. Si tirò su, c’erano puzza e fumo. Vide a terra anche una delle coinquiline della sua fidanzata: lei fece come per muoversi verso di lui ma le sue gambe erano messe malissimo e non rispondevano. Si guardarono, dall’alto verso il basso e poi di nuovo verso l’alto, e inorridirono, tutti e due. Dalle ginocchia in giù le gambe di Bauman non esistevano più: c’erano brandelli sfilacciati di muscoli, tessuti e ossa. Si gettò indietro, contorcendosi, e poco dopo fu trovato da Allan Panter, un medico che era tra il pubblico della maratona ed era rimasto illeso. Panter tirò su Bauman, gli rimise dentro le gambe quello che era finito fuori, gli strinse un pezzo di stoffa attorno alla gamba destra, che era quella messa peggio, e gli diede una giacca. Poi scappò verso un’altra ragazza, le cui condizioni gli sembravano ancora più gravi: era immobile, con gli occhi aperti e vuoti. Bauman resto lì e pensò: sto morendo.
Poi arrivò Carlos Arredondo. Lo sollevò, lo mise su una carrozzina e lo spinse verso un’ambulanza: è l’uomo col cappello da cowboy nella foto che ha fatto il giro del mondo.

Luca

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fotografia

Storie sul freddo americano

nicholas simmons
(AP Photo/Jacquelyn Martin)

A me piacciono il freddo e la neve, per cui guardo con aria sognante le immagini che arrivano in questi giorni dagli Stati Uniti.
Quando penso a quanto mi piaccia il freddo, c’ho sempre un piccolo tarlo che mi rode ed è quello dei senzatetto.
Così. tra le foto del freddo americano, ho visto questa qui sopra che mi ha colpito.

E’ Nicholas Simmons, un ragazzo ventenne, scappato da casa l’ultimo dell’anno e ritrovato dai genitori proprio grazie a questa foto scattata da un fotografo di Associated Press e pubblicata su USA Today insieme a tante altre foto che raccontavano gli effetti dell’ondata di freddo sulla vita degli americani.

E niente, c’ho sempre questo tarlo dei senzatetto quando penso al freddo.

Luca

Immagini | The Atlantic

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sport

Didier e Gilles

Fra pochi giorni saranno 30 anni dalla morte di Villeneuve.
Ieri erano 30 anni dall’ultimo Gran Premio corso dal pilota canadese, nel quale si consumò un dramma umano e sportivo che vale la pena raccontare.
L’ha fatto Tommaso Pellizzari sul Corriere.
Era il GP di Imola del 25 Aprile 1982 e Villeneuve perse la gara a causa di un sorpasso all’ultimo giro del suo compagno di squadra, Didier Pironi.

Tra i due, molto amici, si ruppe qualcosa.
Gilles non gli perdonò quel sorpasso. Per lui il segnale dei box della Ferrari era stato come un ordine di mantenere le attuali posizioni, mentre Pironi l’aveva interpretato in tutt’altro modo.

Fatto sta che i due non avranno tempo di riconciliarsi.
Due settimane dopo Villeneuve morirà durante le prove del GP del Belgio, durante un terzo giro veloce fatto con le gomme finite proprio dopo aver saputo di essere stato superato in griglia da Pironi.

Tre mesi dopo un destino appena migliore toccherà a Pironi, con un incidente spaventoso nel quale si maciullerà entrambe le gambe.
Serviranno 30 operazioni per rimetterlo in sesto.

Ma le storie a volte devono essere tragiche fino in fondo e, alcuni anni dopo Pironi morì in un incidente nautico.

La moglie di Pironi era incinta di due gemelli.
Li ha chiamati Didier e Gilles.

Luca

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vivere

Piccole perle in mezzo alle puttanate

Nei socialcosi si trovano tantissime puttanate, su questo non ci sono discussioni.
La quasi totalità è una puttanata, dicevo, ma ci sono pure delle cose interessanti.
A volte poi, si trovano addirittura delle perle.

m.fisk oggi ha pubblicato un post che si intitola Due anni e che, se i premi dei socialcosi non fossero a loro volta delle puttanate, probabilmente vincerebbe come miglior post di socialcoso del 2011.

Tutto cominciò due anni fa, nel modo più stupido che si possa immaginare.
Ebbi una discussione, per motivi tutto sommato futili, sul blog di una frequentatrice del socialcoso alla quale dovevo esser risultato molto antipatico. La cosa non meriterebbe di essere ricordata se non fosse che a seguito di quello scambio di contumelie M. mi scrisse un messaggio per rappresentarmi il suo punto di vista sull’argomento che aveva originato lo scambio d’opinioni.
Fino ad allora M. era stata solo un’altra socialcosista, una tipa un po’ strana, molto riservata e che parlava di cose che per lo più non capivo, come moda e sfilate. Fino a quel momento i nostri rapporti si erano limitati a qualche battuta, e a una sua serrata critica alla qualità delle mie stoviglie.
Sapete come succedono queste cose: si inizia una corrispondenza telematica, che poi diventa telefonica. A un certo punto ci si incontra; e incontrare M. fu tutt’altro che facile, dato che lei era riservatissima. Ma tanto insistei che alla fine cedette, una sera di Sant’Ambrogio.
Il primo impatto non fu granché positivo, anche perché io al primo incontro non sono mai stato un granché. Persi tempo a parlare di cose mie, spesi qualche parola sull’altra socialcosista: e questa cosa M. me l’ha sempre rinfacciata, bonariamente.
Insomma: le cose andarono male, ma io insistei e insistei, e così il primo gennaio ci mettemmo insieme.
Dopo due settimane a casa di M. c’erano due spazzolini da denti.

Poco dopo M. cominciò a zoppicare, per uno strappo o qualcosa di simile. Lo strappo non guariva, ma M. aveva una paura fottuta dei dottori, e solo dopo qualche mese, imponendomi di forza, ottenni che si lasciasse visitare e fare una radiografia, da cui emerse che lo strappo non era uno strappo.
M. con i dottori non ci voleva nemmeno parlare, e così fui io a dirle questo, come fui io a dirle che si trattava di un tumore, e poi che quel tumore era maligno.
A luglio iniziarono le cure, ma oramai la cosa era andata così avanti che l’osso si ruppe, e gliene misero uno nuovo di pacca.
Io passavo gran parte del tempo in ospedale, grazie anche al fatto che mio figlio era in vacanza in montagna: lei era immobilizzata, e quindi io le leggevo le lettere demenziali di Veltroni e gli articoli lunari di Severgnini, tanto che ci divertimmo a scrivere delle finte lettere e dei finti articoli, litigando sulla scelta dell’espressione più colorita.
Pian pianino le cose andarono meglio, M. ricominciò a camminare, per quanto certo non corresse, e intanto faceva la terapia che avrebbe potuto iniziare assai prima.
Facevamo una vita molto casalinga, un po’ per il suo carattere e un po’ per i postumi dell’operazione alla gamba. Nel frattempo la terapia le aveva fatto perdere i capelli, ma lei non si fece mai vedere da me senza la parrucca, che teneva anche a letto e persino durante il giorno, quando era sola, per paura che entrassi in casa a sorpresa, come spesso facevo, e la vedessi in quello stato poco elegante.
Qualche tempo fa fummo invitati a una mangiata in campagna da un altro socialcosista: a M. sarebbe piaciuto partecipare, e orami si era ristabilita abbastanza da poter viaggiare senza problemi. Alla fine decise di declinare l’invito, non volendo farsi vedere con la stampella e la parrucca, e temendo che qualche malalingua un giorno potesse prenderla in giro.
Ad agosto ci siamo fatti l’unica vera vacanza della nostra relazione: siamo andati a Gressoney, io, lei e il cagnone. Fu una settimana piacevolissima, anche se per la prima volta la nuova terapia le dava un po’ di nausea.
Fu in montagna che cominciammo a vedere le puntate di Fringe, che la fidanzata di un altro socialcosista elegante le aveva consigliato, e che ci appassionò entrambi.

Una settimana fa stavamo vedendo una puntata della terza serie quando, malgrado il mio daltonismo, mi accorsi che gli occhi erano un po’ giallastri. Lei, fedele al comportamento che aveva sempre tenuto, negò.
Martedì i medici dissero a me e a suo fratello che ormai c’erano poche settimane. A lei non lo dissero: avrebbero dovuto dirglielo proprio oggi, quando sarebbe dovuta tornare in ospedale, né noi potevamo farlo, né lo volevamo.
Venerdì mattina avrei dovuto partire per Budapest, per festeggiare i quarant’anni di amicizia con un mio compagno di giochi d’infanzia che ancor oggi è il mio miglior amico. Ero un po’ tormentato non sapendo che fare: rimandare il viaggio sarebbe stato come dirle che stava molto più male di quanto credesse, e quindi decisi di partire.
Giovedì sera M. cucinò, litigammo perché io pretendevo di cenare con la tovaglia mentre lei preferiva le tovagliette all’americana, e come sempre vinsi io. Poi ci guardammo due puntate di Fringe della terza serie, e al momento di alzarsi dal divano M. mi chiese di aiutarla perché era stanca.
Fu un’ispirazione: la mattina dopo decisi di non partire e di passare il finesettimana con lei, forse l’ultimo in cui avremmo potuto stare sereni approfittando dell’ignoranza della sua condizione. Poi sarebbero venuti i momenti difficili, la coscienza della fine; ma avremmo avuto tre giorni tutti per noi.
E difatti abbiamo passato tre giorni di coccole e abbracci.
Venerdì siamo arrivati alla terz’ultima puntata della terza serie, ma sabato sera M. non se la sentiva di finire le ultime due puntate, e preferì andare a letto, dov’è rimasta tutto ieri.

Ho iniziato a scrivere questo post dopo che il prete ha dato a M. l’estrema unzione: ero seduto a fianco a lei, con il PC in grembo, come abbiamo fatto per due anni.
Quando ho finito di scrivere “spazzolino da denti” ho alzato gli occhi, e M. era morta.
Adesso sto finendo di scrivere questo post: sicuramente lei non lo approverebbe, ma per tutto il tempo della nostra vita insieme la rete e le sue amicizie sono sempre state un elemento importante.
Così ho scritto il post in prima persona, raccontando di quello che io ho passato e provato, e ora premerò il tasto per pubblicarlo.

Luca

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diritti umani

Tristi storie della nostra triste Italia

Linkiesta ci ricorda quale sia spesso il destino delle collaboratrici di giustizia in Italia.

Maria Concetta Cacciola, 31 anni. Santa Buccafusca, 38. Lea Garofalo, 35 anni. Donne di Calabria che hanno deciso di collaborare con la giustizia, ma non ce l’hanno fatta. Le prime due si sono tolte la vita allo stesso modo, ingerendo acido muriatico; la terza uccisa e sciolta nell’acido. L’ultima è stata Maria Concetta Cacciola che si è uccisa ieri a Rosarno. Oggi i quotidiani parlano della vicenda, ovviamente nelle pagine interne. A onor del vero c’è anche chi brilla per l’assenza, come Repubblica. In fin dei conti aveva solo provato, come le altre, a schierarsi con lo Stato. E ha perduto. Che vuoi che sia. Una notizia di cronaca.

Luca