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L’albero dei fiori viola

Ho letto il romanzo di Sahar Delijani, L’albero dei fiori viola, il racconto, attraverso tre generazioni di donne, della Rivoluzione Islamica in Iran.
E’ un libro molto bello, una saga famigliare che ricorda i romanzi di alcuni autori sudamericani.
E’ soprattutto un libro che ti fa conoscere qualcosa di più dell’Iran.

perché qui (in Italia), a migliaia di chilometri di distanza, la Storia non è qualcosa che ti riguarda così brutalmente. È un filmato che vedi al telegiornale, è meno fisica, meno reale. Le parole sono più facili da pronunciare, più leggere. I gesti meno inibiti, gli sguardi meno prudenti, i sentimenti meno faticosi, meno confusi dal senso di colpa, dal bisogno di condannare e vendicarsi, di redimere un’intera nazione. Ogni parola non è il simbolo di qualcosa di più alto e nobile o di più vile e miserabile, ogni azione non è un segno di sfida o di conformismo, ogni silenzio non è il tentativo di comprendere da che parte stia l’interlocutore, e ogni sforzo per costruire la propria felicità non è soltanto una sciagurata deviazione dalla lotta per il bene del Paese. Lontano da quella terra, i loro occhi non si muovono più alla ricerca di possibili minacce da cui mettersi al riparo, le loro orecchie non sono più dei radar ipersensibili costretti a captare ogni sussurro. Qui possono fare un passo indietro, osservare, contemplare, trarre conclusioni, e amare, amare senza temere il peggio, senza ritrovarsi dita puntate contro, senza dover fare i conti ogni giorno con l’odore del sangue nelle narici.

Luca

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diritti umani vivere

Mi sembra di avere sentito qualcosa sulla mia guancia quella notte

L’altro giorno vi raccontai del suicidio di Siamak Pourzand, il Mandela dell’Iran.
Una delle figlie ha scritto una lettera molto bella, tradotta in italiano dal Post.

Davvero? Ti sei buttato dalla stessa finestra da cui ti affacciavi ogni giorno a immaginare il nostro ritorno? Quando venni a trovarti brevemente cinque anni fa con l’intelligence che non mi perdeva mai di vista, mi prendesti la mano, mi portasti a quella stessa finestra, mi mostrasti una scuola elementare dall’altra parte della strada e mi dicesti «È una scuola di bambine. Le senti mentre giocano con i loro veli? La mia piccola Azadeh è ancora tra loro. Sei sempre lì, a giocare nel cortile. Mi sveglio tutti i giorni e ascolto la loro cerimonia mattutina immaginando la mia piccola farfalla, Azi, tra loro». Poi ci mettemmo ad ascoltare e guardarle giocare e urlare nel cortile. Poi mi facesti promettere che un giorno anch’io avrei portato un bambino in questo mondo. Mi promettesti che saresti rimasto vivo finché non sarei entrata a Harvard, avessi scritto la nostra storia, avuto una bellissima famiglia e ti avrei portato un nipotino con cui giocare così non saresti stato più solo e non ti saresti più annoiato. Allora ci siamo messi a ridere e io ti ho detto: «Papà, lo chiamerò Siamak». E abbiamo sorriso. «Ma ora è troppo presto per pensare a queste cose», mi dicesti «voglio soltanto che tu sappia che non vedo l’ora di vedere il piccolo bambino di Azadeh e che aspetterò fino a quel giorno, se Dio vorrà, e mi manterrò in salute finché non saremo di nuovo insieme».

Che cos’è successo, Siamak Pourzand? Mi avevi promesso che avresti aspettato su quel balcone. E poi non hai potuto aspettare più. Non ti biasimo, nemmeno per un secondo. Avevi tutto il diritto di cercare la libertà in questo modo. […] Ho sentito che ti sei aggrappato al balcone per un secondo prima di lasciarti cadere. Era perché te n’eri pentito? O perché per un secondo, mi hai sentito bussare alla porta? Il pensiero di te aggrappato per un secondo a quel balcone mi sta uccidendo. Mi manchi così tanto, papà. Mi sei mancato per anni. Ma almeno potevo prendere il telefono e sentire la tua voce. E adesso? Chi mi chiamerà per lasciarmi quei buffi messaggi tutti i giorni? Chi? Davvero te ne sei andato per sempre? Non posso crederci. È successo davvero? Davvero ti sei buttato da quella finestra? Che cos’hai pensato mentre cadevi dal sesto piano fino al momento in cui la terra ha colpito la tua testa? Hai pensato a noi? Mi hai mandato un bacio d’addio? Mi sembra di avere sentito qualcosa sulla mia guancia quella notte. Eri tu? Dimmi che eri tu.

Luca

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diritti umani

Siamak Pourzand

Nei giorni del matrimonio reale e dell’uccisione di Bin Laden se ne è andato nell’ombra un grande protagonista della battaglia in Iran contro il regime degli ayatollah: Siamak Pourzand. Lo chiamavano il Mandela dell’Iran.
Lo racconta Christian Rocca:

Siamak Pourzand, 80 anni, giornalista e saggista, si è gettato dal sesto piano della sua abitazione di Teheran, dove ha vissuto agli arresti domiciliari gli ultimi 5 anni della sua vita. Pourzand non aveva mai voluto lasciare il suo paese, malgrado avesse perso il lavoro all’indomani della rivoluzione islamista. Nel 2001 è stato rapito per alcuni mesi dai servizi segreti, torturato e liberato soltanto dopo essere stato costretto a una confessione pubblica alla tv nazionale. Le accuse erano di aver ricevuto soldi dalla Cia e di aver avuto una relazione extra-coniugale. Pourzand, per questi reati inventati, è stato condannato a 11 anni e 74 frustate. Quando i familiari gli proposero di lasciare il paese, Pourzand decise di non mollare: «Starò qui fino a quando potrò testimoniare davanti a una nuova Commissione per la verità e la riconciliazione tutto quello che questo regime ci ha fatto». Ora che è morto, per responsabilità del regime, il regime ha negato ai familiari e agli amici di parlare al funerale. Alla cerimonia metà del pubblico era formato da agenti dei servizi segreti. Sua figlia Banafsheh Zand-Bonazzi, infaticabile militante dei diritti umani a New York, sta cercando di far conoscere la battaglia da dissidente di suo padre in America e in Europa. A Londra si terrà presto un memorial per raccontare la battaglia di suo padre. E in Italia?

Si, perché stando dietro alle diatribe da pollaio della nostra politica, finisce che ci dimentichiamo di quelli che la politica la intendono in modo un po’ più alto.

Luca

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I tetti di Teheran

Un italiano, Pietro Masturzo, ha vinto il World Press Photo 2009 con una foto che fa parte della serie “Roofs of Teheran” in cui sono raccolti scatti presi sui tetti della capitale iraniana nei giorni delle contestate elezioni.

La gente, dopo aver protestato in piazza e per le strade, la notte urlava il suo dissenso al regime dai tetti e dai balconi di Teheran.

Luca

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diritti umani

Quegli occhi

Il regime iraniano può fare quel che vuole, ma nessuno riuscirà più a farci dimenticare gli occhi di Neda.

si chiamava Neda Agha Soltan, era nata nel 1982, era una studentessa di filosofia. era lì con suo padre.
(dal FriendFeed di Ezekiel)

I processi storici hanno bisogno di icone.
Neda lo è già diventata, suo malgrado poveretta.

Luca