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Farsi il proprio Giorgio Bocca

Negli ultimi venti anni qualunque avvenimento legato in qualche modo alla politica genera sempre schieramenti.
Da una parte o dall’altra, non ci sono posizionamenti terzi.
La morte di un grande giornalista, anzi grandissimo, come Giorgio Bocca non poteva non ricadere in questa logica.

Michele Fusco su Linkiesta ha scritto una bella cosa, con la quale concordo, dicendo sostanzialmente che conviene farsi ognuno il proprio Giorgio Bocca.

Da un ventina d’anni, e forse più, non riusciamo più a rendere elastici i nostri sentimenti e le nostre passioni. Se pensiamo che qualcuno possa rappresentarci compiutamente, lo scegliamo – acriticamente – come nostro paladino. Per sempre e comunque. Se sta dalla nostra parte politica (o crediamo ci stia), le sue parole, i suoi scritti, le sue azioni saranno ammantati di un’aurea dimensione, per cui non metterne in dubbio neppure un capello. In una parola, abbiamo perso la capacità di orientamento.

Ci sono giornalisti che portano con sé il loro popolo di riferimento: guai a dirne qualcosa, verrete inesorabilmente sotterrati dalle critiche, quando non dagli insulti. C’è il popolo di Scalfari (un po’ più attempato e meno incline all’intolleranza), c’è il popolo di Travaglio (l’unico che – dicono – oggi sposterebbe lettori se cambiasse giornale), c’è il popolo di Saviano, che di fronte a un ragazzo che rischia davvero la vita non ammette cedimenti, e ci sono altri popoli sparsi qua e là. Tra l’altro, quasi sempre popoli di sinistra, vuoi perché, come sostiene Galli Della Loggia, la cultura di questa destra è cultura da bar, vuoi anche perché – per convenzione ormai riconosciuta – una certa decenza civica apparterrebbe più a quel mondo.

Com’era ampiamente prevedibile, la figura di Giorgio Bocca non è sfuggita a questo tranello, proiettata in una centrifuga anche un po’ infame in cui si sono mischiate accuse d’ogni genere, da quella terribile d’essere un antisemita (per alcuni scritti orrendi del ventennio), all’altra molto più attuale di avercela con i meridionali e poi le accuse politiche per quegli innamoramenti sbagliati che lui stesso ripudiò con ritardo, fino all’ultima – ma non meno importante nella vulgata – d’essersi piegato al soldo berlusconiano quando ancora il nostro non pensava alla politica.

Rivendicazioni, tutte, che avevano certamente una radice per essere discusse con serietà ed equilibrio, esaminando la lunga carriera di Bocca, ma che no, invece sono state strumento di battaglia tra chi lo amava senza incertezze e chi invece lo odiava. E tutti quelli che volevano capirne di più? Dimenticati. Anche dai giornali.
Per cui, il mio modesto consiglio è quello di prendervi il «vostro» Bocca, quello che avete amato di più, senza badare troppo a quello degli altri.

Luca

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Giorgio Bocca

Il più bel ritratto di Giorgio Bocca, scomparso il giorno di Natale a 91 anni, lo fa, come succede spesso, uno da molti visto dall’altra parte della barricata rispetto a lui: Giuliano Ferrara.
Ovviamente le barricate esistono soltanto nelle nostre teste, e Bocca e Ferrara hanno molte cose in comune.
Il ricordo del direttore del Foglio inizia così:

Non starò a raccontare come e perché ce le siamo date di santa ragione tutta la vita, da quando ero un cucciolo e lui già un adulto cattivo con l’età dei miei genitori, e ce le siamo date da fegatosi, da irascibili, da fieri nemici assoluti su tutto, la politica, il terrorismo, la storia, il Partito comunista, gli azionisti, il fascismo, l’antifascismo, le rispettive ossessioni come Berlusconi, come Craxi, come la corruzione e la questione dell’etica, ma anche il giornalismo, la sua incerta e un po’ sozza morale, la corrività, l’indulgenza e la condiscendenza inguaribili della sua lobby editoriale di Repubblica e dell’Espresso.

E finisce così:

Da moralista, pamphlettista e autobiografo lo spunto superficiale era spesso brillante, la via sinuosa e traditrice degli argomenti e delle storie si faceva leggere, non era mai pomposo, mai altezzoso, e la sua era una cultura dell’anima piena di errori, di distrazioni, Bocca aveva sempre qualcosa di imperdonabile che riscattava con una vena di perfidia generosissima, con una specie di appassionata indifferenza, roba da contrafforte gesuitico della stimabile e tutta d’un pezzo città di Cuneo. Ora che a questo eccezionale imperdonabile dobbiamo perdonargli tutto perché è morto stecchito, esposto alle bolsaggini che s’immaginano frammiste a qualche segno di vera amicizia, ora è spiacevole non averlo vivo con tutte le sue caccole psicologiche, con tutti i suoi morbi professionali, con tutte le sue bevute e le sue sparate, per continuare a leggerlo e farci a botte.

Il ritratto più rituale, lo fa invece Frabrizio Ravelli su Repubblica.

Luca