Boicottare cosa e soprattutto chi?

Stamattina arrivando in ufficio mi sono ascoltato il podcast della Zanzara e mi sono beccato la versione integrale dell’ormai celebre intervento di Guido Barilla contro le famiglie omosessuali.
Che poi è stato un intervento diretto soprattutto contro le donne, ma questo è un altro discorso.

Non è di questo che volevo parlare, quanto della reazione che queste affermazioni hanno suscitato.

E’ evidente che Barilla abbia detto una cosa che sarebbe stata accettabile nell’Italia che viene mostrata nei suoi spot, un’idea di paese che potrebbe andar bene nel 1962, ma che nel 2013 sa di vecchio e induce empatia probabilmente soltanto nelle nonne meno sveglie che poi si comprano i tortiglioni al supermercato.

Il danno di immagine che nel 2013 un’affermazione come la sua può creare ad un’azienda è notevole, tanto che si è scusato pubblicamente, ritrattando quello che aveva detto poche ore prima.

Detto questo, trovo più intollerabile delle sue affermazioni, l’ottusità di alcune catene di sdegno che sono nate come funghi in rete.
Ho trovato particolarmente idiota l’idea di promuovere un boicottaggio dei prodotti Barilla.
Perché i boicottaggi, non colpiscono il proprietario di un azienda.
Colpiscono le sue vendite e il suo fatturato.

Andateglielo a spiegare voi all’operaio gay che lavorava in Barilla e che tra qualche mese sarà licenziato in seguito al successo del boicottaggio.
Cerchiamo di fare le persone serie.

Se le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, tanto meno quelle degli amministratori delegati devono ricadere sulle persone che lavorano per lui.
Se proprio vi prudono le mani dalla voglia di lanciare una petizione in rete, chiedete che Barilla lasci il suo ruolo nell’azienda di famiglia.
Ma la pasta Barilla oggi non è meno buona di ieri e non credo che conosciate le opinioni personali dei proprietari delle aziende concorrenti.

Luca

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politica

Non capirci, come al solito, un beato

berlusconi vanity fair

Filippo Sensi scrive un commento acuto e interessante sulla nuova strategia comunicativa di Berlusconi e del perché, come al solito, rischiamo di sottovalutarne la sua efficacia.

Così, stretto nel cerchio magico della famiglia, lontane le amazzoni e il demi-monde che lo venerava e sfruttava, Silvio sa che l’unico modo di scacciare chiodo è quello di esporsi in una esibita fragilità. Guardato a vista dai suoi angeli custodi che si sono reimpadroniti del padre, non più papi.
Quasi a suscitare un moto di tenerezza, in quella foto chapliniana con Dudù sulle spalle, mentre si allontana con la sua Paulette Goddard, passata da Telecafone a Viale del tramonto, in una trasfigurazione davvero impressionante in Veronica.

Berlusconi agli arresti domiciliari, come un vecchio saggio che ispira e guida la sua nuova Forza Italia potrebbe, per l’ennesima volta, riuscire a spegnere quel sorrisetto saputello e compiaciuto che in molti abbiamo quando guardiamo le foto della sua nuova vita.

La famiglia che per Berlusconi per anni era come i prolegomeni kantiani gli si ripropone ora come una gabbia dorata, come un desco riluttante, un po’ caritatevole, un po’ sacra rappresentazione.
Tutto pubblico, naturalmente; sui rotocalchi, in televisione, a far sospettare, al solito, che ci sia una regia che modula e ricostruisce. Tutti noi a scrollare le spalle, a sorridere, a sottovalutare lui e l’Italia, a non capirci, come al solito, un beato.

Luca

Immagine | Vanity Fair

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La ferita inflitta alla pace. Ma anche no

Questo è un post lungo e noioso, ma me l’avete chiesto voi e ora ve lo sorbite.

Ho un pubblico attento che mi chiede spiegazioni sul perché avessi qualche giorno fa ritenuto utile e condivisibile il post scritto da Andrea Sarubbi, deputato del PD ed ex giornalista RAI, nel quale commentava le parole del Papa che definivano i matrimoni gay come una ferita inflitta alla pace.

Mi lusingate, non pensavo che la mia opinione fosse così degna di attenzione, quindi vorrei un attimo precisare la questione.

Mi si dice che, come al solito, le parole del Papa sono state equivocate. Come dire, pure a noi queste parole sembrano sbagliate, ma la colpa è dei giornalisti che riportano sempre porzioni di discorso, estrapolandole da un riflessione più complessa.
Ci sarebbe da dire che se ogni santa volta equivocano quello che dici, forse varrebbe la pena rivedere un attimo la strategia di comunicazione, perché se io ti chiedo di passarmi il sale e te ogni volta mi passi l’olio, allora forse sono io che non so parlare.

Le parole, prese dal messaggio per il 1 Gennaio 2013, giornata mondiale della pace, sono queste.

Anche la struttura naturale del matrimonio va riconosciuta e promossa, quale unione fra un uomo e una donna, rispetto ai tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale.
Questi principi non sono verità di fede, né sono solo una derivazione del diritto alla libertà religiosa. Essi sono inscritti nella natura umana stessa, riconoscibili con la ragione, e quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa. Tale azione è tanto più necessaria quanto più questi principi vengono negati o mal compresi, perché ciò costituisce un’offesa contro la verità della persona umana, una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace.

Queste parole seguono una dissertazione sulle violazioni contro la vita, quindi la ferita inflitta alla pace si riferisce probabilmente anche (e soprattutto) a queste:

Ogni lesione alla vita, specie nella sua origine, provoca inevitabilmente danni irreparabili allo sviluppo, alla pace, all’ambiente. Nemmeno è giusto codificare in maniera subdola falsi diritti o arbitrii, che, basati su una visione riduttiva e relativistica dell’essere umano e sull’abile utilizzo di espressioni ambigue, volte a favorire un preteso diritto all’aborto e all’eutanasia, minacciano il diritto fondamentale alla vita.

Detto questo, la semplificazione fatta dai giornali “I matrimoni gay sono una ferita inflitta alla giustizia e alla pace” è una semplificazione, appunto, ma è sostanzialmente corretta.
E’ quello che ha detto il Papa.
Se non vuoi che i giornali possano equivocare, separi bene le cose, prima parli degli attacchi contro la vita umana e li associ alla pace, e poi parli dei matrimoni gay. I giornalisti hanno fatto il loro lavoro.

Cosa aveva scritto Andrea Sarubbi di tanto bello e giusto? Sostanzialmente due cose.
La prima, che la politica dovrebbe farla finita di considerare le parole del Papa alla stregua di sentenze delle Corte Costituzionale.

[…]la colpa è tutta della politica, e in particolare di noi cristiani impegnati nel campo: se smettessimo di utilizzare le parole del Pontefice come se fossero sentenze della Corte costituzionale, magari faremmo un servizio a noi stessi e alla nazione. Ognuno di noi, sul tema, potrà avere le proprie convinzioni, ed è giusto confrontarci apertamente; per la credibilità che dobbiamo a noi stessi e alle istituzioni in cui operiamo, però, dobbiamo chiarire agli elettori che l’agenda politica dell’Italia si scrive solo in Parlamento. E vale pure per l’immigrazione, sia chiaro: il giorno in cui la destra si dirà favorevole alla cittadinanza ai figli degli immigrati soltanto perché lo ha sentito da Benedetto XVI nel post-Angelus, anziché confrontarsi con noi nel merito della questione, potremo portare a casa un risultato ma non sarà comunque una vittoria della buona politica. Ma i giornalisti, che non sono poi così fessi, hanno capito tutto in anticipo: e quindi la notizia di oggi – parliamoci chiaro – non sono le parole del Papa, ma la loro possibile ripercussione sull’atteggiamento delle forze politiche in campagna elettorale.

La seconda, che il Papa ha ucciso un moscerino con un bazooka.

C’è poi il secondo aspetto di cui parlavo, quello della metafora utilizzata da Benedetto XVI: già quando il Papa dice – e lo fa spesso – che il riconoscimento giuridico di unioni dello stesso sesso è “un attentato alla famiglia tradizionale” mi riesce complicato capire il nesso tra i due argomenti; quando arriva addirittura a scomodare “la pace”, poi, mi arrendo del tutto. E mi ritornano in mente la Gaudium et spes, che negli anni del Concilio Vaticano II cambiò le carte in tavola rispetto all’insegnamento tradizionale sulla teoria della guerra giusta, e – forse con un po’ di demagogia, lo ammetto – anche i 40 mila morti in Siria, dove pure l’omosessualità è espressamente vietata dal Codice penale, ma la pace non se la passa benissimo.

Che poi il messaggio del Papa sia stato divulgato poche ore prima della strage di Newtown è una coincidenza, tragica ed ironica, che ha fatto pensare un po’ a tutti: “Scusi, Santo Padre, stavamo parlando di ferite infiltte alla pace?”

Ma sulla casualità, le strategie di comunicazione non possono fare quasi nulla.
E’ solo un tragico ed amarissimo scherzo del destino, su cui i gay più ironici avranno sorriso, mentre altri avranno versato le nostre stesse lacrime, incattivite dall’essere stati considerati una minaccia contro la pace.

Ecco, spiegato meglio, il mio pensiero sul discorso di Benedetto XVI.
Nessun equivoco, il Papa quello ha detto.

Se poi, come mi si fa notare, il mio essere sempre in dissenso mi dovrebbe far riflettere sulla mia fede, questo è un altro discorso, vorrei rassicurare tutti.
Mi tocca rifletterci fin troppo spesso sulla mia fede.
Non è l’ennesimo discorso avventato del Papa a peggiorare la situazione.
Ci sono tristemente abituato.

Grazie comunque per il vostro interesse.

Luca

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vivere

Liberare le donne, per liberare gli uomini

Simone Spetia, si quel giornalista bravo con la voce spettacolare che sentite al GR di Radio 24, ha scritto una cosa molto bella e profonda sull’essere uomini e donne che lavorano e hanno una famiglia, magari dei figli.

Ecco, la cosa più pesante (anche intellettualmente umiliante, se volete) è il dover dosare le energie che potremmo liberare come padri, come mariti per accumularle e sfruttarle solo sul lavoro. Questo rientrare stremati a casa e raccontarci la bella favoletta che “non conta la quantità di tempo che trascorri con loro, ma la qualità”, che è un po’ come quella cosa delle dimensioni a letto. Ce la raccontiamo e ce la raccontano. la quantità di tempo conta eccome. Perché ti sei perso quella prima parola, quel gorgheggio, quei passi, quella lezione di calcio o di rugby, quei compiti fatti insieme, quel momento di pace sul divano, quella casetta di Lego, quel racconto sulla giornata a scuola.

Cosa potrebbero essere loro se i gli stessi più accanto, se portassi il mio carico di esperienze di vita diverse da quelle di mia moglie (sempre sia lodata, comunque), se portassi me stesso, per il solo fatto di essere un maschio e quindi diverso da lei? E quante cose in più potrei raccontargli, spiegargli? Quante ne potrei imparare?

Ma la riflessione di Simone Spetia è tutta rivolta alla considerazione di come noi uomini dovremmo prenderci cura della emancipazione lavorativa, e non solo di quella, delle donne, perché è giusto, perché loro se lo meritano, perché vivranno meglio , ma alla fine staremo meglio pure noi.

Dobbiamo fare di meglio, però: far uscire la nostra moglie o la nostra compagna la sera con amiche o amici e restate noi a gestire i bambini, senza romperle i coglioni ogni quarto d’ora al telefono; dobbiamo spingerla a cercare un lavoro, anche part-time, anche precario, che ci costringa a rosicchiare mezz’ore al nostro – di lavoro – per darle la possibilità di farlo; metterci in gioco; immaginarci diversi. Ecco, questo è importante: pensarci in quel ruolo, calarci in una loro giornata tipo e agire di conseguenza.

Liberare le donne, per liberare gli uomini.

Simone Spetia, tra le altre cose, conduce #Votantonio una trasmissione spettacolare per chi si interessi di politica ed internet.
Insomma, è uno bravo.

Luca

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diritti umani

Quando separare un bambino dalla famiglia è cosa buona

Sulla questione del bambino di Padova allontanato dalla famiglia e trascinato via da scuola, su cui è nato tutto un grande coro di sdegno, ed a cui si stanno collegando altri casi, vi consiglio la lettura di questo racconto, fatto dalla figlia di un’assistente sociale.

La mia mamma è un’assistente sociale del servizio per la tutela dei minori. Conosco a memoria le facce scure ogni volta che c’è da fare un allontanamento, le notti insonni e le crisi di pianto. Ci sono anche quelle. Conosco i dubbi, le paure. Conosco le minacce. […]

Le assistenti sociali del servizio minori di tutta Italia conoscono gli allontanamenti che voi avete visto in quel video. Conoscono le grida dei familiari, conoscono gli strattoni dei bambini che il più delle volte sono pronti a difendere a spada tratta genitori che abusano di loro. Se hai dieci anni e la zia ti grida disperata di scappare tu scapperai, perché ti sembra la cosa giusta. Ma non sempre lo è, e ci sono istituzioni, un tribunale e specialisti, operatori, psicologi, psichiatri e tanti altri che hanno valutato quella situazione.

Nel caso di Padova c’è una sentenza del Tribunale dei Minori di Venezia che ha tolto la patria potestà alla madre. Chiedete, provateci vi prego, a un esperto del settore: vi dirà che la patria potestà viene tolta solo in casi gravissimi e se ne valutano tutte le conseguenze. Perché a scuola? Per quattro volte, a casa, non si era riusciti ad eseguire l’allontanamento. La scuola era l’ultimo tentativo: se il bambino si rifiuta di andarsene da una situazione di profondo disagio e pericolosa per la sua salute mentale e fisica, sì, allora anche le maniere forti sono necessarie. Lo so che è il lato scomodo della storia, so che parteggiare con bandiere e striscioni per il bambino maltrattato e la zia con il cellulare in mano è bello, ma la vita è molto più complicata di così. I familiari si appostavano da mesi davanti alla scuola per filmare questa scena. Chiedetelo sempre agli operatori dei servizi, quelli di cui nessuno si ricorda mai quando le cose vanno bene, ma contro cui tutti sono sempre pronti a puntare il dito: ne conoscono a bizzeffe di scene così. Perché la più difficile delle ammissioni è quella di non essere in grado di fare il padre o la madre o lo zio, e quando tutto va a scatafascio, un figlio o un nipote possono essere il solo punto fermo. Ma un bambino di dieci anni non merita di essere l’unica ancora di salvataggio di una famiglia allo sbando, merita la spensieratezza e non la responsabilità. Per questo si allontanano i bambini e si chiamano le assistenti sociali.

Stasera a Padova si terrà una fiaccolata in segno di solidarietà alla mamma del bambino.
Ecco, stasera state a casa, niente fiaccole.
Che le cose sono sempre tanto più complicate di quanto noi vorremmo che fossero.

Luca