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Mi rimetto in pari

giovanni falcone

Da Repubblica del 24 Maggio 1992.

Quanta paura, quanta speranza, quante lacrime alle 18,47. Si, alle 18,47 un medico dell’ospedale civico firma il cartellino “d’entrata” del giudice italiano più famoso nel mondo. Due parole, solo due parole: “arresto cardiaco”. Giovanni Falcone è arrivato morto in ospedale, è arrivato già morto. E sull’ambulanza che lo trasportava c’era la sua borsa di pelle marrone. Piena di carte, piena di fogli. C’era anche un libro, “Il ruolo del Pubblico ministero”. Su un’altra ambulanza Francesca, la moglie, giudice di tribunale, magistrato come il marito, magistrato come il fratello, Alfredo, sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo. “Ha le gambe rotte”, diceva alle otto di sera un infermiere del Civico. “Ha il ventre aperto”, raccontava un chirurgo alle dieci di sera. E’ in coma, no si salva, è in fin di vita, è fuori pericolo. Povera Francesca, è morta, è morta anche lei con il suo amore.

A sera tarda, a tardissima sera arriva la solita rivendicazione della Falange Armata, arriva la notizia del lutto cittadino in memoria di Giovanni Falcone, arriva la notizia del consiglio comunale che si riunisce in seduta straordinaria con quello provinciale. Arriva lo “sgomento” della città di Palermo, la “costernazione” della capitale siciliana per l’uomo simbolo, per l’uomo amato e odiato, per il giudice che ha mandato sotto processo mille uomini d’onore. Gliel’avevano giurata a Giovanni Falcone. gliel’avevano giurata tredici anni fa: “Morirai, lo sai che prima o poi morirai…”. E lui lo sapeva. Ma ridendo, con quella sua faccia che alcune volte lo rendeva antipatico anche gli amici che lo volevano bene, lui rispondeva: “Per me la vita vale come il bottone di questa giacca, io sono un siciliano, un siciliano vero”. E rideva, rideva, Giovanni Falcone.

Via | Luca Sofri